Cecità di Josè Saramago


“Cecità” di Josè Saramago è un libro potente, di quelli che rimangono impressi nella memoria e che fanno riflettere, lasciando però un retrogusto amaro.

Il primo paragone che mi è venuto in mente, per quanto si possano mettere a confronto due romanzi così diversi, è stato con “La peste” di Albert Camus . Ma nella città di Orano, invasa dalla malattia e per questo messa in quarantena, le istituzioni sono presenti, nei limiti del possibile i medici assistono i malati, pur tra mille difficoltà la vita va avanti, negozi, bar, teatri non chiudono mai completamente, l’autore segue alcune vicende umane all’interno della tragedia collettiva e sono queste storie individuali quelle che emergono con forza.

In “Cecità” c’è invece un crollo generale della civiltà, un imbarbarimento e il ridursi degli uomini a uno stato animalesco , non c’è solidarietà ma sopraffazione.

Mi fa pensare di più al lock down per il coronavirus, ma non al nostro democratico lock down, ma a quello imposto in alcune città della Cina dove , da quello che si sa dalle poche notizie che filtrano, l’isolamento è imposto “manu militari” , oppure il pensiero va agli ucraini che da mesi vivono in sotteranei ammassati come bestie, per sfuggire ai bombardamenti russi, ai morti insepolti che si vedono per le strade, alle atrocità che si racconto contro l’inerme popolazione civile, ai civili rifugiati ( o sequestrati dai militari ?) nell’ acciaieria di Mariupol , ad una guerra che rasenta la follia come del resto tutte le guerre.

Il crollo in “Cecità” è raccontato, nella sua devastante brutalità, da una protagonista femminile, la moglie dell’oculista che, per qualche inspiegabile motivo , è l’unica a non diventare cieca e sceglie di seguire il marito che viene internato in un ex manicomio insieme ad altri compagni di sventura.

Per una serie di coincidenze tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’oculista, si ritrovano in quarantena in questo edifico requisito dal governo , guardati a vista da soldati che hanno l’ordine di sparare se qualcuno tenta di fuggire e senza nessuna assistenza sanitaria o di altro tipo; l’unico aiuto che ricevono è quello del cibo che viene portato tre volte al giorno e lasciato rigorosamente sul portone.

Guidati dalla moglie del medico i membri del piccolo gruppo riescono ognuno a ritrovare la propria casa, ma scelgono di vivere tutti insieme in quella dell’oculista che non è stata occupata da altri. L’orrore non accenna a finire. Una vecchia che il gruppo ha trovato nella casa di una di loro e che sopravvive mangiando carne cruda dei polli e dei conigli che ha in giardino, viene da loro trovata qualche tempo dopo, in un nuovo sopralluogo, per strada divorata dai cani, il magazzino dove hanno trovato del cibo in un deposito si è trasformato in una bara per altri ciechi che vi si sono infilati, ma che non sono più riusciti ad uscire da quella che sarà la loro tomba. Fuochi fatui filtrano dalle fessure sotto la porta, che si può aprire solo dall’esterno.

Fra i vari personaggi c’è il primo uomo a diventare cieco e sua moglie, l’uomo che l’ha soccorso e riportato a casa ma gli ha rubato la macchina, una donna in cura dall’oculista per una banale congiuntivite che fa la prostituta ed è diventa cieca durante un rapporto con un cliente in un albergo, un ragazzino strabico che nel caos ha perso sua madre, un vecchio con un occhio bendato che l’oculista doveva operare per una cateratta, il medico, cieco fra i ciechi, e poi c’è sua moglie, l’unica che può vedere il montare del degrado ,via via che, mancando ogni forma di assistenza e pulizia , le latrine si intasano , lo spazio diventa un acquitrinio melmoso in cui ogni igiene è impossibile. La donna sceglie di non rivelare che ci vede e assiste come meglio può gli ospiti della camerata. Ma il peggio deve venire. Via via arrivano sempre altri ciechi, fino a quando alcuni di loro, con un capo armato di pistola, impongono la loro legge agli altri: se vogliono mangiare devono pagare. Prima requisiscono tutti i soldi, gli ori e i gioielli che gli altri hanno con sè, poi pretendono che le donne delle altre camerate vadano da loro a fare sesso in cambio di cibo, in un crescendo di violenza e brutalità. Nessuna può sottrarsi. La moglie del medico, travolta dall’orrore, decide di intervenire e, con un paio di forbici , visto che nessuno può vederla, riesce ad entrare nella camerata dei ladri e infilza con le forbici il capo sgozzandolo. Una delle donne violentate innesca un incendio che presto divora tutta la struttura e quando i reclusi riescono ad uscire scoprono che i soldati non sono più di guardia, hanno perso la vista anche loro . I ciechi, improvvisamente liberi, ma completamente disorientati vagano per la città , in mezzo a cadaveri abbandonati insepolti per le strade, branchi di cani famelici, gruppi disperati di altri ciechi che cercano nei negozi aperti e svaligiati qualcosa di commestibile e che, non potendo ritrovare le proprie case, occupano quelle vuote a caso.

Ala fine c’è un barlume di speranza, la cecità, così come si è inspiegabilmente manifestata, scompare e tutti recuperano la vista. Ma neppure questo finale riesce ad essere del tutto consolatorio. Troppa violenza, troppi orrori hanno intriso il racconto, il degrado è apparentemente svanito, ma come è arrivato può tornare con la prossima catastrofe che è lì, appena dietro l’angolo.



		

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