“Ma che roba è questa?” si chiese Donata al termine degli esercizi di yoga, stretching e respirazione profonda che metteva svogliatamente in pratica ogni mattina, da quando era in pensione e si era imposta di fare cose intelligenti per sé e per recuperare il suo io creativo.
Supina, sdraiata sul tappetino di plastica azzurra che usavano tutti per fare yoga e che quindi si era scrupolosamente comprata anche lei, si era palpeggiata la pancia, che si era sgonfiata dopo una serie micidiale di addominali, e aveva avvertito, in basso a destra, una strana palletta dura.
Era, più o meno, sotto il fegato, dove ci sarebbe stata l’appendice, se non gliela avessero tolta quando era bambina, come andava di moda a quei tempi, quando i medici toglievano tutto, appendice, tonsille, adenoidi, iniettavano il vaiolo e usavano la penicillina come se fosse un ricostituente.
Il rigonfio duro era proprio lì, sembrava una ciste: al tatto si rivelava mobile, come se fosse dotato di una sua propria autonomia dal resto del corpo.
“Ma che roba è?” tornò a interrogarsi Donata.
“Un grumo di feci? Uno di quei tappi fastidiosi che si formano nella pancia quando da qualche giorno non riesci a cacare?”
“No, era troppo in alto nell’intestino, non poteva essere uno stronzo duro. Doveva essere qualcos’altro. Ma cosa?”
Donata pensò all’ultima scoperta che l’aveva inquietata: qualche mese prima le avevano trovato dei calcoli alla cistifellea. Il corpo, che era stato per molti anni suo compagno funzionale e silenzioso, stava invecchiando e accumulava varie piccole, fastidiose disfunzioni.
C’era stato un dolore al ginocchio (artrosi?), la vista appannata per un inizio di cataratta, poi un misterioso arrossamento alle palme delle mani ed era stato durante gli accertamenti per capire cosa fosse quello strano sintomo che il suo medico della mutua, pensando al fegato, le aveva fatto fare un’ecografia addominale e da quella – zac! – erano spuntati i maledetti calcoli.
Ma che rapporto poteva esserci fra la palletta e i calcoli alla colecisti?
“Nessuno” concluse Donata. Non ci si può sentire la colecisti con le mani. Lei la immaginava come un sacchetto della spesa, ingombro di sassolini, appesantito e pronto a stracciarsi. Aveva deciso di non operarsi quando aveva saputo che i chirurghi non toglievano i calcoli frantumandoli con un laser o con qualche diavoleria moderna, come aveva immaginato, ma che asportavano tutta la cistifellea, aspirandola con un tubicino, una cosa orribile.
“La cistifellea è mia, fa parte di me, Simul stabant, simul cadebunt” aveva pensato Donata, che in gioventù aveva studiato latino e greco al liceo e aveva militato in gruppi femministi, al grido di “L’utero è mio e lo gestisco io”.
Mentre ripensava al lungo elenco di acciacchi che sapeva di avere, le risuonò nella mente la voce della sua maestra di canto, insegnante di soul voice, a cui Donata si era rivolta per imparare a cantare (sempre colpa della pensione), lei che era stonata come una campana.
“Dai un nome al tuo dolore. Ogni dolore ha un suono,” le diceva l’insegnante.
Donata si concentrò sulla ciste, o su quello che era, e immaginò, come aveva imparato a fare, di ascoltare la voce di quella cosa.
Avvertì prima un borbottio indistinto; poi, via via che la respirazione si faceva più lenta e profonda, raggiunto uno stato di profondo rilassamento, sentì una voce rauca da uomo che le usciva dalla pancia.
“ Si, dammi voce, dammi voce.”
“Va bene, chi sei? Parla!”
“Lo sai, lo sai, non fare finta, lo sai chi sono. Avanti dillo!”
“Un tumore, sei un tumore?”
“Sì, sì, si……” il sì era strisciato, sibilante.
“Un tumore? Aiuto! Come ci sei arrivato lì, da dove spunti, maledetto?”
“Non ti scaldare. Te lo spiego. Ti ricordi quando non avevi mai tempo di cucinare? Eri giovane, sui venticinque anni credo, vivevi da sola e spesso la sera ti facevi per cena caffè e latte con pane inzuppato?”
“Non è che non avevo voglia di cucinare, magari cose sane, è che non avevo soldi, non avevo ancora un lavoro fisso, mi arrangiavo con le supplenze a scuola. Se hai fame, un bel caffè e latte con il pane scalda e riempie la pancia.”
“È uguale. Io sono nato lì, ho messo su le mie prime cellule maligne in quel tempo.”
“C’eri già? Ma non è possibile? Io non sentivo nulla.”
“Già e io mi faccio sentire, secondo te, prima di essere abbastanza potente? Ma mi prendi per scemo?”
“Va beh, lascia perdere e poi cosa hai fatto?”
“Dopo sei restata incinta. Cresceva il tumore figlio e crescevo anch’io.”
“Il tumore figlio ? come fai a paragonarti a un feto?”
“Se non ti piace il paragone non so cosa farci, ma anche un feto è un corpo estraneo, qualcosa che ti cresce dentro, non trovi?”
Donata non replicò.
“Ti ricordi le colazioni che facevi al bar, quando andavi a lavorare? Cappuccino e brioche, e poi per pranzo uno di quei panini morbidi, di pane gonfiato, pieni di maionese e salsette varie? Lì ho avuto una bella botta di vita. Per anni hai mangiato male, cara mia, e tutta quella spazzatura di cibo era manna per le mie cellule.”
“Ti sei nutrito delle mie colazioni, dei miei pasti veloci?”
“Sì, sì, sì” rispose sibilante. “E anche dell’aria che ingurgitavi quando eri nervosa, cioè sempre. Ti ricordi come annaspavi in preda all’ansia quando dovevi destreggiarti fra lavoro, figlio, e faccende domestiche? Mentre tu buttavi dentro aria per lo stress, le mie cellule si ossigenavano, prendevano vita, si moltiplicavano.”
“Stronzo, hai approfittato delle mie debolezze, ti ho nutrito io”
“Certo, insieme alle mille e mille sigarette che hai fumato, non dimenticartele.”
“Ma che c’entrano le sigarette? Non sei mica nei polmoni?”
“No, ma tu fuma, fuma pure. Tanto è troppo tardi. Ogni boccata di nicotina e catrame mi aiuta a crescere”
“Troppo tardi? Che cosa vuoi dire?”
“Sono imbattibile , sei spacciata.”
“No, non è possibile.
Donata sentì le gambe farsi molli, le mani sudate, il cuore che accelerava i battiti.
“Sì, che bello, la paura! Mi nutro anche di quella. Paura, paura! “
“Ma vai a farti fottere. Stasera vado dal dottore all’ambulatorio, tanto per cominciare.”
“I dottori, consultali tutti, compreso i grandi luminari. Mi fanno un baffo, ormai, te l’ho detto, sono imbattibile.”
“C’è sempre la chemio, un’operazione.”
“Non eri contraria alla chemio? Non eri per le cure alternative, l’omeopatia, l’agopuntura, la macrobiotica?”
“Come fai a sapere cosa penso della chemio o di altre cure?”
“Io so tutto quello che sai tu. Penso con le cellule del tuo cervello. Sappi che la chemio non mi farà che bene, distruggerà le tue difese, starai malissimo e io continuerò a proliferare.”
“Troverò il modo di fermarti.”
“Non c’è modo. Io sono te e tu sei me. Ho vinto.”
Donata si alza dal tappeto azzurro, si tira un po’ su i pantaloni che aveva abbassato per palparsi la pancia, passa davanti allo specchio, si dà uno sguardo, si aggiusta i capelli schiacciati dalla posizione supina.
Va verso la finestra, la apre, si siede sul davanzale, si gira verso l’esterno e si lascia cadere di sotto, nel vuoto.
“La vedremo, crepo io, crepi anche te” fu il suo ultimo pensiero.
Corriere di Firenze 10 giugno 2013
Inspiegabile suicidio ieri in via Bixio, nell’interland fiorentino. Alle 9,30 circa la signora Donata C. si è buttata dal terzo piano del suo appartamento.
I vicini dicono che l’anziana pensionata era una persona riservata e tranquilla. Il figlio trentenne, raggiunto telefonicamente a Genova dove vive, affranto dal dolore, ha detto al nostro cronista: “Mia madre era in perfetta salute e non aveva problemi di sorta. Non riesco a capire cosa sia successo.”
Domani le esequie.
Tremendo
Caspiterina! Potrebbe essere la mia storia…Non faccio yoga però. Fantastico.Brava
Grazie Nilde
Cara Donata, credo di averti incontrata da qualche parte…fai di tutto per non farti vedere, ma io ti ho seguita( so essere peggio del tumore se voglio). Mi spiace che tu ti sia lanciata dalla finestra senza vedermi.
Si avevo visto qualcosa con la coda dell’occhio, ma non mi sono soffermata! Peccato. Grazie del commento