Mi chiamo Ugo Bianchi, ma tutti, nel paese dove stavo prima, mi chiamavano Raperino. “Sei una rapa” mi diceva la maestra perché non le rispondevo mai e i compagni, in coro, scandivano “Raperino, raperino, non capisce nulla”; così tutti hanno cominciato a rivolgersi a me in questo modo. Mia madre, anche lei, mi chiamava rapa, oppure cretino, scemo, buono a nulla o, quando era molto arrabbiata, figlio del demonio, animale, assassino. In questo posto, dove sono ora, mi chiamano Ugo, ma io non mi volto neppure perché non ci sono abituato.
Da bambino non parlavo con nessuno. Non è che non capissi o che non sapessi parlare. E’ che proprio non ne avevo voglia; e poi, se dici una cosa ad una persona, non sai mai cosa può succedere dopo. Meglio stare zitti. Non avevo amici perché gli altri bambini mi prendevano in giro oppure mi riempivano di botte, ma non mi importava perché avevo molti giochi da fare:
– saltare a zoppo galletto sul marciapiede evitando di pestare le righe fra una lastra di pietra e l’altra
– arrampicarmi sugli alberi da frutto nei campi dietro casa, dopo essermi assicurato che non ci fosse il contadino e avere studiato bene il punto d’appoggio migliore per iniziare la scalata
– stare seduto su un ramo robusto, con i piedi a dondolare nel vuoto, mangiando una susina aspra
– andare al torrente e saltare da una pietra all’altra
– catturare girini nelle pozze di acqua stagnante.
Capitava alle volte che, nonostante le precauzioni, mi sbucciassi un ginocchio o mi sporcassi di terra . Una volta sono anche cascato vestito nel torrente. Quando tornavo a casa mia madre diventava rossa in viso e si metteva ad urlare; se le arrivavo a tiro mi picchiava, schiaffi, pugni e, se cadevo a terra, pedate. Se ero sporco mi faceva lavare: mi infilava nella vasca e mi strusciava con un guanto ruvido nell’acqua fredda. Anche se, piangendo, le chiedevo di smettere, lei continuava fino quasi a spellarmi, “per togliere” – mi diceva- “ogni sporcizia, ogni impurità”. Non ho conosciuto mio padre e neppure i miei nonni. L’unica persona della famiglia che vedevamo era zia Rosa, la sorella più piccola di mia madre che qualche volta veniva a trovarci.
Dai loro discorsi, che ascoltavo senza farmi vedere, ho capito che mio padre era un soldato tedesco di cui lei si era innamorata. Poi lui è andato via e sono nato io. I miei nonni erano molto arrabbiati e l’hanno cacciata di casa, chiamandola puttana. Mia zia portava notizie anche degli altri fratelli e dei parenti e cercava di placare mia madre.
“Devi capirli, Anna! Erano sconvolti! Un figlio! Non eri sposata. Che potevano fare?” diceva, mentre girava il cucchiaino nella tazza del caffè. Mia madre serrava le labbra, faceva un espressione cupa e scuoteva la testa. Qualche volta andavamo a trovarla noi. Mi piaceva la sua casa, era in campagna, c’erano l’orto e gli animali. C’era anche mio cugino Renato che era più piccolo di me e magro di costituzione; quindi non poteva picchiarmi. Giocavamo a rincorrere le galline e chiappare nelle gabbie i conigli, prendendoli per le orecchie. Li tiravamo su e quelli scalciavano e si contorcevano per liberarsi. Poi zia Rosa è andata a stare in un altro paese più lontano e l’abbiamo vista sempre meno. Ho smesso presto di andare a scuola: non mi è dispiaciuto. Tanto ormai, anche se nessuno lo sapeva, avevo imparato, da solo, a leggere e a scrivere. Qualche anno dopo ho cominciato a crescere; sono diventato alto, più alto di mia madre, e robusto. Mia madre non mi ha più picchiato. In quel periodo è cominciata la paura, una sensazione orribile di morte che mi prende all’improvviso e che ancora oggi mi tormenta. Alle volte inizio a tremare, il cuore mi batte veloce e va a sbattere contro il torace come se dovesse esplodere, il respiro diventa difficile e mi sembra di soffocare. I miei pensieri non mi appartengono più. Mi sento risucchiato verso il nulla e ho il terrore di andare in mille pezzi, di scomparire. Durante uno di questi attacchi, ho scoperto la mia frase magica; le parole mi sono uscite dalla bocca da sole: “ Lavati bene, sai! Non meriti nulla, sai”. Non hanno un significato particolare per me, ma, se le ripeto a voce alta, riesco ad allontanare la paura. Piano piano torno a respirare normalmente, il cuore riprende il suo battito normale, posso toccare le cose ed appoggiarmi ad un mobile o ad una parete per restare in piedi. Da quando ho scoperto queste parole, tutte le altre sono scomparse. Non riesco a dire altro.
Cerco di dare un’intonazione alla frase, allegra, arrabbiata, come se fosse una domanda, ma nessuno mi capisce. Ottengo solo che mi dicano “ Che ti cheti? L’abbozzi con codesta solfa?”
Anche qui, dove sono ora, tutti mi sgridano: “Ugo, smettila, per piacere. Finiscila con codesta litania”. Qualche volta mi portano dal dottore. Mi piace stare li seduto davanti a lui; nella sua stanza ci sono molti libri e dalle finestre senza sbarre si vede il giardino, gli alberi, le aiuole. “Lavati bene sai! Non meriti nulla sai!” gli dico in tono amichevole, tanto per dire qualcosa. Una volta lui mi ha chiesto se quella era una frase che mi diceva mia madre; non ho saputo rispondere. Degli anni dopo la partenza di zia Rosa, non ricordo molto. Le giornate sono trascorse tutte uguali. Mia madre faceva sempre le solite cose e tutti i giorni puliva la casa. Amava molto la pulizia. Quando puliva, per non starle fra i piedi, se era bel tempo, stavo seduto in terrazzo e guardavo la gente passare. Lei spolverava, spazzava, dava il cencio. Tutti i giorni strofinava i vetri, le porte, le maniglie delle porte. Inondava il bagno con la varechina che lasciava un odore aspro e cattivo. Invecchiando è diventata più magra di quando era giovane, i capelli le sono diventati grigi. La ricordo con la sua vestina di cotone con i quadretti bianchi ed azzurri, la granata in mano. Stanca e sudata, ma sempre decisa a pulire. Se era freddo o se pioveva, durante le pulizie, mi sedevo sul letto in camera mia, sul bordo, per non fare pieghe e aspettavo che lei finisse. Si mangiava, lei si metteva a pulire la cucina, qualche volta mi lasciava vedere la televisione. Uscivamo poco, per fare la spesa o raramente per andare a messa. Quando ero fuori casa, spaventato di trovarmi in mezzo alla gente e a rumori non familiari, ero costretto a ripete la mia frase velocissimo. I “che ti cheti” della gente accompagnavano il mio passaggio. Un giorno, qualche mese fa, mi sono svegliato e non ho sentito nessun rumore. Niente acqua che scorre , niente finestre che sbattono quando vengono aperte, niente panni scossi fuori; non sento il fruscio della scopa o del cencio sul pavimento. Nulla. Mi sono alzato e lei non c’era. Ho aspettato, non è tornata. Avevo fame. Ho mangiato del pane e del formaggio. Sono andato sul terrazzo, sono tornato a letto. E’ andata così per qualche giorno e qualche notte. Il pane era duro, il formaggio era finito. Mi sono fatto coraggio e ho aperto la porta della sua camera, dove assolutamente non potevo entrare. Da bambino lei mi picchiava se tentavo di farlo. Era stesa sul letto con la sua camicia da notte a fiorellini rosa . Un braccio ciondolava di lato. “ Non meriti nulla, sai! Lavati bene sai!”. L’ho chiamata, non rispondeva; allora mi sono ricordato di una volta che mi aveva detto che, per fare rinvenire una persona, bisogna spruzzarle acqua in faccia. L’ho fatto ma non è successo nulla. Ho preso un asciugamano, l’ho bagnato e ho cominciato a strofinarle la faccia, Mi sono impegnato. Ho strofinato, ho strofinato a lungo senza mai smettere. Non so quanto tempo è passato, forse dei giorni. Ho sentito un rumore alla porta. In casa sono entrate delle persone. Due vigili del fuoco, delle signore che non conoscevo. Ho sentito la sirena di un ambulanza che arrivava. Sono entrati degli infermieri ed un dottore. Non ho capito più nulla: ero terrorizzato. Mi sono seduto in un angolo della cucina, le mani sulla faccia, le ginocchia al petto. “Lavala bene sai! Non meriti nulla sai” gridavo. Ho sentito le signore dire “tutore, cugino, residenza assistita”. Il dottore mi ha fatto una puntura. Mi sono svegliato in questo posto. E’ una bella villa , molto grande: al piano terreno c’è un salone, ai due piani superiori lunghi corridoi con tante camere. Nel salone ho visto persone molto anziane o malate: alcune camminano appoggiandosi al bastone o ad una specie di trespolo con le ruote. Altri sono in carrozzina. Alcuni parlano e ridono; pare che si divertano fra di loro, altri urlano o dicono cose senza senso. Tutti hanno volti pieni di rughe, mani secche e macchiate, sguardi spenti. Nessuno di loro si occupa di me, così posso stare tranquillo a guardare cosa succede. Ogni tanto qualcuno mi urla dietro “Che la smetti? Vuoi stare zitto, scemo!”ma io non faccio una piega . Ho una bella camera con due letti: uno è mio, nell’altro c’è un signore che, poverino, non si muove mai. Vengono gli infermieri lo lavano, lo girano su un fianco e poi ,dopo qualche ora, sull’altro. Gli danno da mangiare attraverso una specie di tubo che va direttamente nello stomaco.
Lui sta sempre fermo e non parla. Non so come si chiama: gli operatori lo chiamano numero 55 “c’è da pulire il 55” dicono. Ho provato a parlargli. “Lavala bene sai! Non meriti nulla sai”, gli ho detto, ma ho l’impressione che non mi senta e che non mi veda neppure. Tiene il capo inclinato da una parte e un filo di bava gli scivola fuori da un angolo della bocca aperta ed impregna l’asciugamano che gli mettono sempre sotto il mento. Ho provato a pulirlo, ma una delle operatrici mi ha visto e si è molto arrabbiata.” non devi assolutamente toccarlo, Ugo” mi ha detto “ se ti rivedo, lo dico alla direttrice. Chiaro?” Mi sono fatto da parte: “Lavala bene sai! Non meriti nulla, sai!”, ho detto, per dire che avevo capito. Se ne è andata, scuotendo la testa. Comunque questo è un bel posto. C’è un giardino con delle panchine dove posso stare seduto ad ore. C’è sempre qualcosa di buono da mangiare. Oggi a colazione c’era il latte caldo con l’orzo e pane e marmellata da inzupparci dentro. A pranzo ho mangiato pasta con il pomodoro, fette di tacchino e insalata. Come frutta potevo scegliere fra mele e pere. Ho scelto una pera. La domenica c’è anche la torta. Nella sala grande dove si mangia c’è molto rumore, perché siamo in tanti. Qualcuno parla, qualcuno urla, gli operatori si dicono cose fra loro. Le forchette sbattono nei piatti, i bicchieri sbattono, i piatti sbattono. Alle volte, a metà mattina, ci vengono a chiedere “ Chi vuole fare attività?” Io spesso alzo la mano . Loro ti portano nelle sale, vicino al salone da pranzo. Una è solo per le donne, che vanno lì a cucire, a ricamare, a lavorare all’uncinetto. Nell’altra ci sono dei tavoli e il materiale per dipingere. La maestra Carla è una ragazza giovane, alta e magra, con i capelli lunghi tirati in una coda dietro; porta orecchini lunghi e colorati. Qualche volta mette lo smalto rosso sulle unghie. Mia madre avrebbe detto che è una puttana. Mi piace disegnare. Ho disegnato cani, gatti, alberi, case, montagne. Ho provato a fare il torrente con le pietre dove saltavo da bambino ed è venuto abbastanza bene. Poi mi è venuto in mente di disegnare mia madre. Era tanto che non la vedevo e non mi ricordavo più bene come era fatta. Mi sono concentrato, ho strizzato gli occhi, ho serrato i denti, ma non c’è stato nulla da fare. Sono riuscito solo a disegnare una parte del busto, le spalle curve come le aveva lei, il contorno della faccia con i capelli, ma gli occhi, la bocca, il naso non ci sono riuscito; tutto era scomparso, lavato via, diluito nell’acqua sporca dei pennelli per dipingere. Carla mi si è avvicinata. “ Bravo Ugo!” mi ha detto “ Chi è questa donna, tua madre?”. “Lavala bene sai! Non meriti nulla sai”. “Prova a finire. Sono sicura che ci riesci”; mentre mi parlava, mi ha poggiato una mano sulla spalla, sentivo il suo odore dolce e il calore del suo corpo. Mi sono messo a piangere, un pianto che non potevo fermare. “Lavala bene, sai! Non meriti nulla, sai!” ho detto singhiozzando e sono scappato fuori, portandomi dietro il disegno non finito. Sono corso in camera e l’ho nascosto, prima che arrivassero Carla e gli altri a cercarmi. “Dai, Ugo! Stai calmo, va bene così, anche se non lo finisci. Dove l’hai messo il disegno? Va beh, non importa, ora calmati e torna giù.” Sono tornato al piano di sotto, a braccetto della Carla, ma ho deciso che dipingerò fiori. E’ più sicuro.
Diario segreto di Ugo Bianchi
Nessuno deve leggerlo
Gentile Signor Renato,
in qualità di tutore e di unico parente, le rendiamo gli effetti personali di suo cugino Ugo Bianchi deceduto, come le ho detto telefonicamente, per cause naturali il 22 maggio ultimo scorso.
Sentite condoglianze.
La Direttrice della Residenza sanitaria assistita S. Marta
Dott.ssa Maria Rossi
25 maggio 2020
Elenco degli effetti personali
– biancheria intima
– 4 paia di pantaloni
– 4 camicie
– 4 magliette
– 6 golf
– un giaccone invernale
– una catenina d’oro con medaglietta della Madonna
– un quaderno scritto a mano
– un disegno ad acquerello, raffigurante un busto di donna, con il volto non completato
CARTELLA CLINICA
RSA S .MARTA
Nome e cognome: Ugo Bianchi
Data di nascita : 25 aprile 1944
Data ingresso in struttura : 10 giugno 2009
Diagnosi: soggetto schizofrenico con marcate stereotipie verbali
Ulteriori note cliniche: nessuna
Data del decesso: 22 maggio 2020
Causa del decesso: arresto cardiaco
Il medico della struttura
Dott. Fabrizio Neri
22 maggio 2020
Dalle note di servizio degli operatori
Soggetto docile, collaborativo.
Unica difficoltà comportamentale: rifiuta l’igiene personale.
L’equipe degli operatori socio-sanitari
20 giugno 2009
Foto tratta da http://www.facebook.com/icoloridellamente
Reblogged this on rossiabner46.
a volte l’ultima volontà di uno scrittore è quella di non far leggere a nessuno la propria opera, come fosse una confessione a dio. Fu così per Kafka, e così è per raperino.
Fortunatamente, capita che qualcuno non abbia il coraggio di seguire quell’ultima volontà.
Grazie per questo piccolo prezioso squarcio.
Grazie a te per il commento. Raperino è un soggetto schizofrenico, ma anche Kafka che scrive di un uomo che diventa scarafaggio non se la passava tanto bene 🙂
direi che chiunque scriva sia un personaggio che ha qualche disagio da esternare 😉
Se passi da noi potrai vedere come questa verità si riflette in ciò che facciamo! 🙂
Mi piace molto l’idea del malato mentale che scrive un diario segreto quasi per gestire e curare la SUA malattia, facendosi beffa della medicina tradizionale che nella realtà, non ha capito niente di lui come del resto di lui, non ha mai capito niente nessuno.
Il tema della malattia mentale credo sia ancora oggi un ginepraio, sbaglio? Vorrei analizzarlo meglio questo tema importantissimo come vorrei approfondire il suo non rapporto con la società causato dal rifiuto della madre nei suoi confronti. Bello. Se ne parlerà.
Il mondo è pieno di persone “meravigliose “come Ugo Bianchi.
Bravo…Sei davvero bravo
Buona domenica
Mistral
Grazie Mistral
bello… soprattutto per chi, come me, ha conosciuto un “Raperino”…